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 pasquale dacunzo

Il neuroscienziato di origini lucane Pasquale D’Acunzo proseguirà le ricerche sulla malattia di Alzheimer, almeno, per i prossimi due anni. Nativo di Tursi in provincia di Matera, il Dr. D’Acunzo si è diplomato al liceo scientifico di Policoro, ultimando gli studi accademici tra Milano e Roma. Dal 2018 vive a Manhattan (New York) e lavora nel laboratorio della Prof.ssa Efrat Levy al Nathan S. Kline Institute. L’anno scorso è stato autore di un articolo scientifico, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Science Advances, che verteva sulla scoperta delle mitovescicole (così definite dal ricercatore lucano). L’articolo in questione, che ha avuto vasta eco nazionale e locale, oltre che tra gli addetti al settore, trattava di una nuova entità nanoscopica presente nel cervello con probabili implicazioni nella sindome di Down e nella patologia di Alzheimer. Tante le testate e le televisioni che dedicarono ampio spazio alla notizia. Per questa sua originale ed inedita scoperta il ricercatore lucano, lo scorso anno, è stato insignito del prestigioso ‘ISEV2021 Young Investigator Award’ e la sua relazione inserita nel programma della seduta plenaria della conferenza del 18 maggio 2021. Di recente l’Alzheimer’s Association (la fondazione no profit dedicata alla ricerca sull’Azheimer più importante al mondo) ha finanziato la prosecuzione dei suoi studi per i prossimi due anni (fino al 2024) con un finanziamento di circa140mila dollari tramite il programma Alzheimer’s Association Research Fellowship (AARF) 2022. Questi studi potrebbero avere importanti conseguenze per il trattamento in futuro di questa forma di demenza, dallo scovare nuove strategie terapeutiche, al mettere a punto nuovi strumenti diagnostici per monitorare il suo andamento. Recentemente gli elaborati e le ricerche di D’Acunzo sono state oggetto di programma in meeting e conferenze. Dal 25 al 29 maggio si è svolto al Centre des Congrès di Lione (Francia) il più importante meeting scientifico al mondo riguardante le vescicole extracellulari, una sorta di ‘pacchetti’ di materiale biologico delle dimensioni di un virus che le cellule si scambiano per condividere informazioni o per eliminare materiale di scarto. Nella seduta mattutina del secondo giorno, sono stati discussi i nuovi dati del neuroscienziato di origini lucane. La Prof.ssa Levy ha esposto gli ultimi risultati provenienti dal suo laboratorio riguardanti il ruolo che queste vescicole extracellulari avrebbero nei complessi meccanismi cerebrali che portano alla dipendenza da cocaina. Data la corposità dell’argomento, le relazioni sono state due. La prima ha riguardato le alterazioni indotte dalla cocaina sulle vescicole extracellulari del cervello di animali da laboratorio e di come queste alterazioni possano correlare con cambiamenti profondi all’interno dei neuroni. «I nostri studi ci hanno chiaramente mostrato come la cocaina agisca a livello cellulare in maniera totalmente differente nel cervello degli animali maschi rispetto alle femmine - ha dichiarato il neuroscienziato-. Non solo abbiamo dimostrato che queste differenze non sono genetiche, ma ormonali, e dipendono sostanzialmente dal livello di estrogeni». Validando queste scoperte sull’uomo, lo studioso lucano è fiducioso di trovare risultati simili, che possano nel lungo periodo portare a definire terapie più efficaci per combattere la dipendenza da cocaina e, magari, consentire di monitorare nel tempo il cervello degli individui una volta terminata l’assunzione della sostanza. Una scoperta rilevante a livello diagnostico. «Non di secondaria importanza, -ha aggiunto il ricercatore- i nostri dati sottolineano l’importanza di studiare sia il cervello degli uomini che quello donne e di non dare per scontato che l’insulto preso in esame, sia esso genetico o ambientale, rechi conseguenze simili in ambo i sessi. Per quanto possa sembrare ovvio, questo è un problema annoso nel mondo scientifico. La maggior parte degli studi passati, direi più o meno fino a venti anni fa, sottostimavano le differenze biologiche tra i sessi e si concentravano quasi esclusivamente sullo studio di campioni maschilietà». Questo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Neurochemical Research, nel quale il Dr. D’Acunzo figura come co-primo autore e autore corrispondente di riferimento. La seconda relazione, invece, sempre a firma di D’Acunzo, si è concentrata su dati ancora non pubblicati ma in fase di stesura finale riguardanti le mitovescicole. Quest’ultime, scoperte solo l’anno scorso dal Dr. D’Acunzo e colleghi, sembrano poter spiegare alcuni dei cambiamenti a livello metabolico osservati nel cervello di persone che assumono cocaina in maniera frequente. Dal 9 al 12 giugno si è tenuta a a Long Beach (California) la quarta edizione di quella che negli ultimi anni è diventata una delle più importanti conferenze al mondo sulla sindrome di Down, organizzata dalla Trisomy 21 Research Society (T21RS), con sede a Barcellona. Anche in questo importante consesso scientifico, il comitato organizzatore ha invitato come speaker d’onore la Prof.ssa Efrat Levy per tenere una conferenza su una scoperta avvenuta l’anno scorso nel suo laboratorio ad opera del neuroscienziato lucano, che lavora nel gruppo di ricerca della Prof.ssa, a New York City, dal 2018. Come già evidenziato, il ricercatore lucano, formatosi professionalmente tra Milano e Roma, è stato autore di un articolo scientifico in cui vengono scoperte e descritte per la prima volta le mitovescicole, Scopo della ricerca è capire cosa fanno queste mitovescicole nel cervello e che implicazioni può avere la loro alterazione per l’andamento della patologia, una sorta di palline nanoscopiche di materiale biologico, come dichiarato dallo stesso D’Acunzo, che sono costantemente prodotte ed espulse dai neuroni e che probabilmente sono fondamentali nella regolazione del metabolismo e del benessere di queste cellule. «Abbiamo scoperto che sono alterate nel cervello di individui con la sindrome di Down – ha dichiarato D’Acunzo- e che potrebbero avere un ruolo nella connessione tra questo disturbo del neurosviluppo e la malattia di Alzheimer. Purtroppo, più del 60% delle persone con la sindrome di Down che raggiungono i 60 anni di età soffrono di una qualche forma di demenza associabile alla patologia di Alzheimer, una proporzione enorme se paragonata alla popolazione generale di pari età».